venerdì 2 aprile 2010

Fuori dalle Gabbie

Non ho mai creduto nella libertà nel parkour o meglio in quel concetto di libertà caro a tutti i praticanti che ad esso si appellano per descrivere le sensazioni ed i modi di vivere questo aspetto della propria vita. Non è forse accomodante appellarci alla libertà pur vivendo la nostra disciplina circondati da schemi, concetti, e gabbie più o meno spaziose?

"Nell'antica cina prima che un'artista cominciasse a dipingere qualsiasi cosa un albero per esempio, vi si sedeva di fronte per giorni mesi anni, non importava per quanto tempo, finchè egli era l'albero. Non si identificava con l'albero, egli era l'albero. Ciò significa che tra lui e l'albero non c'era spazio, tra l'osservatore e la cosa osservata, non c'era colui che sentiva la bellezza, il movimento, l'ombra, l'intensità di una foglia, la qualità del colore. Egli era totalmente l'albero, e solo in quello stato poteva dipingere."

Se il pittore non fosse l'albero non potrebbe far altro che limitarsi a dipingere l'immagine dell'albero che la sua mente ha creato. Questo ha valore anche nel parkour. Quando pratichiamo in realtà non stiamo facendo nulla di personale, nella maggior parte dei casi ci limitiamo ad eseguire con il nostro corpo l'immagine che ci siamo fatti della disciplina, di certi movimenti e mescoliamo questa immagine con il desiderio di realizzare qualcosa di appagante, di armonioso, di bello o di apprezabile agli occhi degli altri. E' un po' come se il nostro corpo fosse un pennello, la nostra mente l'inchiostro e il parkour la tela su cui dipingiamo noi stessi o forse è più giusto dire l'immagine che abbiamo di noi stessi.

In questo dipingere possiamo essere liberi o essere schiavi, possiamo dipingere su un foglio bianco o su un foglio a quadretti.

Cosa vuol dire questo? Troppo spesso ci limitiamo ad imitare i movimenti di altri praticanti, sia osservando i nostri compagni d'allenamento sia attraverso i numerosi video che il web ci offre. Questo di per sè non è sbagliato; l'apprendimento per imitazione fa parte del nostro essere animali ma è di vitale importanza non restare intrappolati in questo schema, che da una parte è sicuramente comodo da un punto di vista prettamente motorio, dall'altro rappresenta un limite e un'ostacolo alla crescita della disciplina in quanto crea un gabbia di schemi e di preconcetti attorno ad essa.

Torniamo all'esempio del pittore, egli dipinge solo quando egli stesso è l'albero, allo stesso modo ogni praticante può essere veramente libero solo quando è egli stesso la disciplina. Questo concetto è di fondamentale importanza. C'è un'enorme differenza tra essere l'albero, la disciplina e identificarsi nell'albero o nella disciplina. Questa differenza è un'abisso. L'identificazione crea un'immagine di ciò che il parkour rappresenta, del nostro ideale di disciplina, di come noi la vediamo di come vorremmo che fosse, del nostro modo di muoverci, di come si muovono i praticanti che direttamente e indirettamente conosciamo.

Nel momento in cui ci identifichiamo con la disciplina seguiamo un canovaccio creato da altri limitando di fatto le nostre potenzialità e quelle di ciò che pratichiamo come se potessimo agire esclusivamente nel range d'azione che ci impone l'immagine che la nostra mente ha creato. Vivendo il parkour come una mera immagine, come un'etichetta creiamo una distanza tra noi e la disciplina ed è proprio in questa distanza che sono contenute le nostre paure, le nostre ansie, le aspettative, i paragoni e i confronti con gli altri praticanti, la paura di cadere, la paura di non riuscire, la paura di provare dolore, la paura di fallire nell' esprimere noi stessi. Queste sono tutte immagini, e creiamo immagini per riempire la distanza che c'è tra noi e la disciplina, ma per ogni immagine creata c'è una nuova distanza da colmare e da questo scaturisce un macchinoso processo senza fine.

Per essere veramente liberi nella pratica, dobbiamo quindi essere noi stessi la disciplina. Quando non c'è distanza tra noi e la disciplina non ha senso parlare di praticante e arte praticata (osservate come solo citando queste sue parole si crea una distanza), non ha senso parlare di paura, competizione, bravura o non bravura, tutte queste immagini non esisterebbero poichè non ci sarebbe nessuno spazio e nessun vuoto da riempire tra noi e il parkour. Quando siamo la disciplina siamo arte, amore, bellezza, non seguiamo un canovaccio o uno schema, siamo liberi da condizionamenti culturali, sociali, comportamentali siamo liberi di creare quello che siamo così come un fiume che scorre verso il mare e scava da solo il proprio letto senza essere deviato o imbrigliato da argini artificiali che modificano con violenza il suo naturale andare.

La parola violenza non è casuale. Quando qualcuno ci pone delle costrizioni, dei doveri a cui siamo vincolati allora soffriamo, stiamo male, non ci sentiamo liberi, non siamo felici. La nostra natura è violentata, ma la maggior parte delle volte siamo noi gli artefici di questa violenza e delle nostre imposizioni non la società, non gli "altri" ma noi. Questo è veramente difficile da capire e da accettare poichè per difesa tendiamo tutti a darci delle giustificazioni che servono a non vivere col peso della responsabilità ed è così che creiamo i nemici, gli altri, i diversi, le paure e la violenza che è lo strumento con cui la paura viene esorcizzata.

Riusciamo a vedere questo nella nostra immagine di parkour? Riusciamo a vedere i limiti e le gabbie che noi stessi costruiamo attorno a noi? Riusciamo a capire che il bisogno di essere bravi, o più bravi, la paura di cadere è figlia delle immagini che ci siamo imposti?

"Scegli di non cadere" ha detto qualcuno, "scegli di non aver paura" aggiungo io. Di certo se riuscissimo ad essere la disciplina e non ci fermassimo ad identificarci con l'immagine che abbiamo creato di essa allora non ci sarebbero scelte da fare, non dovremmo scegliere di non cadere, non ci sarebbero veramente ne allievi e maestri, saremmo tutti affluenti di un'unico scorrere.

Come fare ad essere il parkour? Porsi questa domanda, desiderare di essere qualcosa che si crede di non essere crea altre immagini ed altre distanze. Dare delle risposte ed illudersi di darne è altrettanto pericoloso poichè non ha senso liberarsi da uno schema utilizzandone un'altro. Quello che possiamo fare è riconoscere queste gabbie, questa violenza, queste imposizioni; riconoscerle in noi come prodotti della nostra mente, diventare ottimi osservatori, guardare ai particolari dei fenomeni, degli avvenimenti riuscendo a cogliere il quadro generale del tutto. Riconoscere quando ci stiamo ingannando e il meccanismo che vi è dietro, accettarlo senza bramare di annientarlo. Senza desiderare di essere migliori in un futuro prossimo o remoto, siamo già migliori di ora e lo siamo proprio ora; e se lo capiamo scopriremo che non ha ha senso parlare di "migliore"...migliore di cosa? della tua immagine di ieri? il presente è l'unico tempo che ha veramente importanza, è qui ed ora che viviamo ed è qui è ora che esistiamo, ne ieri ne domani.

Qualcuno una volta ha detto "per essere veramente liberi dobbiamo morire ogni giorno". In fondo capire tutto questo ed essere la disciplina è facile come meditare.



9 commenti:

  1. Un breve sunto di alcuni pensieri che mi passano per la mente ultimamente. Senza nulla pretendere.

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  2. stavo riflettendo su questa cosa da un paio di giorni... grazie

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  3. bravo,veramente.posso solo essere d'accordo.la penso esattamente nello stesso modo,per alcune cose.sembra che tu ti sia ispirato a un po' di zen e a un po' di krishnamurti :).

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  4. Grazie ragazzi del tempo che avete dedicato alla lettura del blog.
    Ghost, onestamente non mi sento vicino allo zen di cui ho compreso e studiato poco. Cerco semplicemente di essere un buon osservatore ed in questo Krishnamurti mi ha sicuramente aiutato a comprendere qualcosa :)

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  5. Perchè hai inserito questo testo tra "malattie umane"? Ritieni che si tratti di una malattia e non di un malessere? E' da un po' che m'interrogo su questo...

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  6. Alla fine io direi "senza cercare di essere migliori ma cercando di migliorare". Mi sembra che detta così la frase abbia uno scarto di senso fondamentale per quello che hai detto. Tra mente rivolta sterilmente al futuro e mente rivolta proficuamente al presente.

    Bel post, ti cito sul mio blog se non ti dispiace.

    -frog

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  7. Cita pure senza problemi.
    "cercando di migliorare" è a mio avviso un'altro inganno. C'è già un indiretto scudo protettivo in quella frase. "Io cerco di migliorare" è un tentativo e nei tentativi, qualunque essi siano, c'è sempre l'ombra del fallimento. Oltretutto il "tentare" presuppone l'esistenza di uno spazio temporale in cui il rischio è di restare intrappolati in un oggi che viene costantemente rimandato al domani alla luce di ciò che è successo ieri. Faccio un esempio per non dilungarmi:
    potremmo dire "cerco di aprire gli occhi", ma capirai bene che se vogliamo osservare veramente dovremmo dire "ho gli occhi aperti" (ed anche questa è una piccola forzatura). Il concetto è questo: ci concentriamo troppo spesso sul modo in cui aprire gli occhi, quando dovremmo semplicemente aprirli.

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  8. Allora diciamo: "senza cercare di essere migliori, ma migliorando" :-)

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