martedì 23 febbraio 2010

Bivi e Domande - Sulla strada della Forza

L'importanza di porsi delle domande fa parte del cammino di ogni traceur, esse rappresentano uno dei modi in cui il nostro corpo e la nostra mente ci mandano dei segnali e cercano di farci capire che siamo pronti per fare un passo più avanti oppure che dobbiamo stare attenti a non perdere l'equilibrio ed è meglio correggere la nostra direzione. Tra le centinaia di domande che quotidianamente ogni praticante dovrebbe porsi ho scelto di parlare di quella che reputo uno dei cardini della disciplina, una domanda che non sempre affiora in modo spontaneo nella nostra coscienza e che rimane spesso sopita.

Molti di noi all'inizio dell'esperienza da praticante intraprendono questo cammino senza sapere bene cosa aspettarsi ne tanto meno che direzione prendere, ma ci lasciamo trasportare dalla curiosità di qualcosa di completamente nuovo che irrompe nel nostro quotidano in modo quasi irrispettoso. All'inizio è il parkour che ci trascina e ci conduce e noi non possiamo far altro che assecondare questo folle conducente.

In questa prima fase impariamo a conoscere il nostro corpo e le sue potenzialità, iniziamo a vedere dei miglioramenti nel nostro modo di gestire i movimenti che abbiamo imparato e che prima credevamo impossibili. Subentra insomma una consapevolezza sempre maggiore in quel che si fa. Man mano svanisce quel senso di stordimento che ci ha affascinato all'inizio e ci ha inebriato come fosse una sostanza di cui non si può fare a meno, ecco in un certo senso potremmo dire che subentra in noi una specie di assuefazione al parkour.

In realtà assuefazione non è il termine più corretto da usare. Potremmo dire che avviene un processo naturale, come quando da piccoli impariamo a camminare; all'inizio dobbiamo sforzarci di capire quale piede mettere avanti e quale dietro ma man mano che andiamo avanti non pensiamo più alla consequenzialità dei passi e ci limitiamo a camminare come se lo avessimo sempre fatto. Allo stesso modo se inizialmente osservare il mondo in maniera diversa dall'unico modo a cui eravamo abituati era una piacevole novità, ora esso diviene normalità, abitudine e di conseguenza si fonde con il nostro punto di vista.

Giunti qui iniziamo a renderci conto che il nostro conducente è ormai stanco, non ha più la forza necessaria per portarci avanti, ha terminato il suo compito, ci ha insegnato a slegarci da alcuni preconcetti del vivere gli spazi che ci circondano e ci ha permesso di conoscere meglio noi stessi.

Ora la guida passa a noi, cambiano le nostre esigenze e di conseguenza il tipo di domande che ci poniamo. All'inizio della nostra storia da praticanti infatti le domande che vanno per la maggiore sono: "come si fa questo movimento?" - "come faccio ad imparare il monkey?" ecc... ma quando il parkour ci abbandona e diventiamo i conducenti di noi stessi siamo costretti inevitabilemente a porci domande differenti: "come faccio ad allenarmi in modo da migliorare ancora?" - "come faccio a saltare più di così?" - "Come faccio a gestire un percorso" - "Come spiego alla gente quello che faccio?" ecc...

C'è da dire che la velocità con cui ciascuno di noi cambia modo di porsi domande è assolutamente soggettiva; sono molti i praticanti che restano legati ad un modo puerile di vedere la disciplina pertanto non è detto che tutti ci poniamo le stesse domande, non tutti riescono o vogliono superare certi step e capita anche che molti abbandonino l'attività sportiva assieme al ritiro del proprio conducente.

Una volta che abbiamo imparato a guidare noi stessi le cose diventano ancora più difficili. I miglioramenti sono molto più lenti rispetto all'inizio, viviamo molti periodi di stasi dove per quanto ci sforziamo non riusciamo minimamente a migliorare. Questi momenti spesso sono dei forti segnali che ci indicano che dobbiamo cambiare qualcosa nel nostro approccio alla pratica e spesso basta veramente predere dei minimi accorgimenti per riprendere i propri progressi in maniera produttiva ed efficiente. A volte è sufficiente porsi la domanda giusta per riuscire ad andare avanti.
Proprio in uno di questi momenti di vuoto ho avuto la fortuna di pormi la domanda che ha cambiato il mio modo di affrontare la pratica del parkour.

"Voglio essere bravo? O voglio essere Forte?"

Essere bravo comporta una'affannosa ricerca prestazionale, imparare movimenti sempre più complessi per riuscire a capire fin dove ci si può spingere. La strada che porta alla bravura è lastricata di insidie, l'essere bravo comporta delle variabili che spesso emergono e finiscono col deviare profondamente i principi stessi che stanno alla base della disciplina. Ragionare in termini di "bravura" comporta il porsi in confronto con qualcuno poichè a mio giudizio il confronto con se stessi nell'uso del "parametro bravura" è un paragone che non può reggere: o si è sempre più bravi di se stessi oppure non lo si è mai (lascio a voi capire questo concetto).

La strada che porta alla ricerca della bravura è guidata dall'Ego. Chi vuole diventare sempre più bravo si affanna alla ricerca di un'universalità che non esiste. La bravura è un parametro assolutamente soggettivo che viene però oggettivato attraverso il confronto/scontro/paragone con altri praticanti. E' il proprio Ego che detta i parametri e i termini di paragone del proprio essere bravi o più bravi di qualcun'altro. L'Ego per alimentare se stesso ha bisogno non solo di essere bravo, ma di essere più bravo di qualcun'altro e ove sia impossibile reggere il confronto utilizza parametri propri per poterne uscire comunque vincitore. Non voglio fare degli esempi ma chiunque partecipa a raduni o si allena con altre persone ha ben in mente cosa voglio dire. E' il nostro io sociale che ci fa tacere e spesso ci porta a nascondere agli altri alcune verità che in fondo dentro noi stessi conosciamo bene, mi riferisco al fare confronti, paragoni, al guardare i difetti dei nostri compagni e paragonarli con i nostri pregi, tutte pratiche che qualunque traceur fa o ha fatto almeno una volta durante la propria vita ma che con difficoltà ammetterà pubblicamente o peggio ancora che non ammetterà neanche a se stesso.

In cosa differisce allora il voler essere forte dal voler essere bravo?
Dal prendere coscienza di questi meccanismi egoici e dal fare un grande lavoro su se stessi per poter far emergere il proprio sè che troppo spesso viene sconfitto dalle ragioni dell'Ego.
Se la strada per la bravura è lastricata di insidie quella che porta ad essere forte lo è ancora di più. Non è semplice accettare i propri limiti e non parlo di quelli fisici, ma sopratutto quelli mentali e comportamentali. La strada della Forza passa attraverso un duro confronto con i propri demoni, che vanno accettati, capiti e sconfitti. Solo l'umiltà di riconoscere i propri limiti ci dona la forza per poterli ridisegnare.

Essere bravi è una lotta contro il tempo, quello anagrafico e quello storico che vede le nuove generazioni crescere in maniera esponeziale rispetto a quelle vecchie. Essere Forti non ha tempo, non c'è un tempo entro cui bisogna diventarlo perchè è un traguardo che non si raggiunge mai. Il difficile sta nel non avere riferimenti nel non vedere lo stesso orizzonte che chi intraprende la strada della bravura brama di raggiungere, il bello è riuscire a camminare cogliendo dettagli e particolari che chi si affanna a correre non potrà mai godere.

Esiste forse una domanda che rende bene il concetto che c'è dietro la Strada della Forza:

...qual è il limite di un traguardo irraggiungibile?



2 commenti:

  1. grande.pensieri che suscitano pensieri...non posso che essere assolutamente d'accordo,e l'ultima frase e' un meraviglioso koan.grazie.

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  2. o si è sempre più bravi di se stessi oppure non lo si è mai

    questo è il koan da risolvere!!!

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